domenica, luglio 01, 2007

La Spirale aurea di Astor Piazzolla - di Monica Mantelli

Ode intima a una musica che si può ballare

Scortatemi pure alla gogna dei puristi che ritengono che Piazzolla non sia ballabile. E fatemi stare ai ceppi. Tra coloro che non fanno parte dell’Accademia della Crusca del tango. A mio modesto parere, tutta la musica è ballabile. Il problema è capire come ballarla.
Per ballare Piazzolla bisogna aver letto molta poesia di Borges, bisogna aver dormito con i suoi animali fantastici e aver sognato di volare sul mondo coi suoi occhi. Bisogna aver planato sui quadri di Dalì, tra figure sospese nell’aria e creature imponderabili, aleggianti tra divinazione e mortalità. Bisogna aver pianto sui film in bianco e nero degli Anni ‘50. Bisogna essersi invaghiti di uno stormo armonico di tutù sulle punte; bisogna aver comprato il libretto di un’opera lirica e speso più di quanto ci si poteva permettere per il biglietto della Prima. Bisogna aver ascoltato i concerti delle grandi orchestre dagli spalti di un’arena all’aperto. Guardando le stelle con la commozione dei bambini. Bisogna aver respirato l’eco del jazz nei locali accalappiati dai centri storici e l’odore del blues fumoso delle periferie cittadine.
Bisogna aver capito il blù del crepuscolo, lo spleen dei poeti maledetti, i colori delle vocali di Rimbaud. Bisogna aver scelto di vivere con passione e senza rete. Bisogna aver giocato tutto, insomma, confessando il nostro amore a una persona che non ci amerà mai. Bisogna aver voglia di rischiare, per ballare Piazzolla. Non tutti sono pronti. Buttarsi nella spirale aurea di composizioni musicali che ci portano oltre gli schemi del riconoscibile, fa paura. Turba. Mette in crisi. E allora si demonizza, si urla all’untore, perché troppa libertà fa male, meglio cullarsi in un sonno che non prevede troppi scossoni, e offre un rassicurante e ritmico disegno fisso.
Piazzolla invece presuppone l’abbandono. Presuppone lo “sciogliere le righe”. Vibrare nella curva infinita dell’energia vitale dell’uroboros, il serpente saggio che mangia se stesso. Accettare l’idea che della vita che sconfina nella morte. Ma con gusto, con intenzionalità, come sul costante filo di un rasoio.
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