dal Blog di Manginobrioche
1) OTTO PASSI - lezione di tango uno
Che una ci va con la testa piena di cose false: “ il tango è un pensiero triste che si balla ” , “ Piazzolla odia i ballerini perché ha un difetto a un piede ” , “ il tango è maschilista ” , “ attenti al tango, perché divide le coppie e ne riunisce di altre ” .
Che una poi arriva alla palestra, che è una palestra con odore di palestra – gomma, sudore, spugna, caucciù – e rumori di palestra, ma non si sente precisamente in una palestra (anche perché in nessun luogo vai senza portarti dietro quello che hai letto e immaginato, e andiamo in giro carichi come muli di tavolini, sale di specchi, orchestre a plettro, vasi di gardenie, scorci di Buenos Aires. Anche nelle palestre seminterrate sulle colline dello scirocco).
Che una poi entra titubante, e si domanda cosa la stia portando lì, anche se lo sa benissimo, perché c ' è scritto, nero su bianco, lì nel bigliettino “ cose da fare per la vecchiaia ” : “ tango argentino, tagliatelle , greco antico, rose ” , e dunque meglio pensarci per tempo.
Che una pensa proprio le cose che pensa nella vita, la vita là fuori, fuori dalla palestra: non ho un partner, forse non ho le scarpe adatte, forse inciamperò davanti a tutti, non avevo niente da mettermi, non so le parole, forse ci farò un post.
E poi, invece.
E poi invece il maestro sembra quasi argentino, anche se è di Faro Superiore, e ha le scarpe più luccicanti che io abbia mai visto, e in quegli otto passi – sono otto passi base, “ imparateli bene, che poi li dovete dimenticare ” – ti fa balenare un intero alfabeto delle passioni: cortes y quebradas, salidas, mordida, ocho adelante, medialuna …
L ' hai sempre saputo, che si vive di pause, trasalimenti, comandi impercettibili, impartiti con gesti che nessuno vede, parole mai pronunciate. Lo sapevi già, ma qui ne hai la prova. Di più: qui lo sanno tutti.
Otto passi, e c' è tutto: lui ti guida, e tu lo capisci soprattutto dalle pause; lui invade il tuo spazio, ti costringe a fare passi, o ti ferma; lui ti fa indietreggiare. Lui si frappone, prende decisioni, ti spinge lungo la salida senza che tu possa opporre altro che la tua assoluta, elastica arrendevolezza, i tuoi incroci obbligati per libera scelta.
La principiante assoluta non riesce a non guardarsi le scarpe, non riesce a non guardarsi in tutti gli specchi, perché si sente storta, trasportata e sbilenca, e lui – che è un principiante assoluto però è maschio, e, si capisce, anche lui porta lì dentro il fatto che si sente stupido e impedito, e più responsabile del solito, perché quello è tango, mica vita, che uno si può nascondere dietro mamme, gonnelle e presunzioni – lui si fa la sua salida tutto sudato, e ti dà pure la colpa: sei tu che mi anticipi, fai i passi corti, mi confondi.
Intanto gli altri ci urtano, persi ciascuno nella propria traiettoria, e gli otto passi – “ imparateli, mi raccomando, che poi devono sparire ” (ma è possibile? dovrò dimenticarli o solo esserli, e dunque perderne memoria?) – si mescolano, e sono diciotto, ottantaquattro o milleotto.
La salida è lunga chilometri, usciamo tutti dalla palestra, arriviamo al porto, passiamo lo Stretto e ancora continuiamo ad arrampicarci, di otto passi in otto passi, e forse faremo il giro della Terra e arriveremo a Buenos Aires, e l ' otto sarà chiuso.
Il principiante assoluto ha caviglie di legno massello, responsabilità che non riesce a governare: hai sbagliato tu, dice a lei col fiato corto, questa volta hai sbagliato tu. La principiante assoluta sorride, ma lo vorrebbe picchiare, e allora fa i passi lunghissimi, così lui s ' arrangia, con quelle gambette storte. Tanto, lui è ancora principiante, non sa vendicarsi con una pausa lunga un passo, tre battute o anche una vita intera.
Chi vi guarda non immagina nemmeno la feroce lotta di contrappesi che c ' è tra voi, le intenzioni che strusciano sul parquet, lungo le punte, risalgono le caviglie – “accostate ogni volta, quello che si apre si chiude ” .
Allora tu ripassi tutto quello che sai della vita e, cavolo, funziona. L ' unico problema è che non puoi dirlo. Devi imparare a camminarlo.
2) PENTIMENTO - lezione di tango due
“la vita non è sempre una milonga; il ricordo è sempre un tango”
Insomma, qui funziona così: a ogni lezione dimentichi qualcosa.
E il fatto che dimentichi è segno che stai imparando.
Ieri abbiamo dimenticato il primo passo, quello che l'uomo fa indietro e la donna avanti. Il passo contraddittorio, ingannevole, bugiardo, perché la donna è per destino seguidora.
“Lui ti porta sull'orlo del precipizio? E tu lo segui, lo assecondi ”.
Nessuna novità, in effetti. Anzi, con gli anni hai imparato a gettare un'occhiata di sbieco al precipizio, sapere quanto è fondo, quanto è scosceso, quanto ti ci vorrà per arrivare in fondo, quanto per risalire. Ci sono uomini da burrone, uomini da forra, uomini da timpa, uomini d'abisso (rari).
Uomini che cadi solo tu, e lui ti guarda da sopra e stringe le spalle: non lo sapevo, non ho potuto evitarlo. Uomini che cadete assieme ma lui si salva, con la giacchetta agganciata a un ramo pietoso e materno. Uomini che nella caduta spariscono, e nemmeno sei sicura che c'erano, prima. Un'invenzione per cadere.
Uomini che mentre cadete ti dicono: è colpa tua.
E il tango ce li ha tutti, i vizi degli uomini e delle donne.
Ora abbiamo una nuova cosa da imparare e dimenticare, consegnare al corpo e alle sue grammatiche di gesti, pesi, direzioni.
“Io arrivo qui e mi pento, torno indietro”. Il maestro esegue un passo di pentimento, così esatto e lucido sull'impiantito che mi sembra di riconoscerlo, d'averlo già letto. Che scema, ho già letto tutto: pentimenti, direzioni sbagliate, precipizi, passi indietro. Questo è solo un riassunto a uso del corpo, una traduzione con pochissimo testo a fronte, un bignamino in otto passi.
“ Mi pento ” continua a ripetere il maestro, che nella vita – nella vita fuori, sbiadita e immersa nel caos delle parole – è comandante di navi traghetto, comandante di andirivieni e pentimenti in un braccio di mare cortissimo e insidioso, dove il tempo è fermo quasi come in un tango, fermo e pieno di accelerazioni e correnti e vortici e soprattutto ritorni.
Lui si pente, si tira indietro, si volta da un'altra parte, lei lo insegue, gli si piazza davanti (“guardami, guardami, portami ancora ”), che il tango è obliquo ma frontale, sbieco ma diritto, opposto ma coincidente: lei gli si ripiazza davanti, poi deve espiare – la memoria ancestrale le dice che sì, va bene così, è giusto così, ed è fuori da ogni discorso - torna indietro, incrocia i tacchi, si sottomette di nuovo. Si chiama ocho cortado o milonguero , l'otto tagliato che si disegna di continuo tra loro, l'infinito pieno di sponde che ritornano, come uno Stretto da navigare avanti e indietro, come un nastro di Penrose, come un pentimento, come un tango.
Perché, accidenti, è pure magnifico, questo breve percorso di pentimento, questo dramma in otto passi tagliati che interrompe la salida , cambia le direzioni e poi le ricomincia, perché le ferite si chiudono ogni otto passi, e il mondo ricomincia.
Io lo sapevo che il pentimento mi veniva bene, e ho tentato una cosa: l'ho ballato a occhi chiusi, come sempre nella vita. Sentivo solo la musica e il peso, e i comandi del corpo dell'altro, che mi spiegava senza dirmelo che si stava pentendo, e preferiva tornare indietro, e cambiare direzione, andare dall'altra parte dello Stretto – dove ieri c'era ancora la neve, una neve salata che si dissolveva nell'acqua, una neve calcarea e sabbiosa, una neve ostinata a occhi chiusi – e io potevo solo seguirlo, supplicare per tutti i suoi 120 gradi di pentimento, incrociare indietro i miei passi, mostrargli la solita, feroce mansuetudine.
M'ha persuasa, così cieca com'ero, così affacciata sugli otto che disegnavano di neve lo Stretto, il parquet, le intenzioni. Così caparbia, così salata.
Sono uscita felice – la neve s'era sciolta ma aveva lasciato intenzioni gelide nell'aria - e quando m'hanno chiesto: “ Cos'hai fatto?” io ho risposto senza esitare: “ Non mi sono pentita ”.
3) CADENTIADOR - lezione di tango tre
“Il tango è gringo, la milonga è creola”
Luigi ha lasciato il corpo a casa, ed è venuto a lezione.
La rinuncia gliela si legge nelle spalle appese, nella bocca serrata, nelle scarpe inverosimili, coi catarifrangenti spessi ed arancioni .
Javier, invece, non ha l'anima: l'ha sciolta tutta nel corpo, chissà quando.
Ha un corpo sensitivo che avverte ogni cosa, modifica lo spazio, entra per conto suo nel tempo. Per questo domina il ritmo solo con un movimento del polso, riflette su di sé – come uno specchio cavo - la musica, ricevendo addosso l'intera tessitura delle pause, delle figure, delle intenzioni della melodia, e infine disegna passi avvolgenti che – è perfettamente chiaro a tutti – fanno girare tutta la stanza, l'isola e forse pure la Terra.
La lezione si svolge fra Luigi e Javier, e noi in mezzo.
Oggi è milonga, la cugina allegra del tango. “La milonga è cadentiada ” dice Javier con la sua bella bocca: ha una bellezza tutta voltata in dentro, bruna e chiusa. Ha una bellezza con un lato interamente nascosto, di profondità non misurabile. Affiorano le fossette sulle guance – nell'allegria leggera che non disperde mai quel velo opaco sull'acqua – taluni sorrisi a mezza bocca, un modo di portare il cappello su un lato. Nessun abito lo mortifica, e pure sono grisaglie, grigi minutissimi dalla trama sottile, rivestimenti di sabbia, abili nascondigli per il suo corpo liquido che scivola in ogni piega.
“Uno-due, uno-due: non perdere il tempo, è tutto qui” dice Javier, alzando appena le spalle (come accade con certi battiti d'ali, nello stesso momento forse un monsone si solleva nei mari dell'India). Sulle 56 battute - ché il tango quando decide d'essere milonga s'accelera da dentro, s'assottiglia e si moltiplica, fa crescere le sue 30 battute in una vertigine - muove sei passi che sono seicentosei, fanno il giro del mondo, e dopo ottanta giorni siamo ancora lì a guardarlo. Noi, e Luigi.
Luigi te lo dice subito: “Io non sento la musica, è inutile”. E sta lì, fermo sulle sue scarpe cingolate. Aggiunge cavalleresco – ma è la rinuncia che parla, ventriloqua: “Sei capitata male, con me”. E la Principiante Entusiasta s'allena una volta di più nell'arte femminile del dominio voltato in sottomissione: avrebbe voglia di salirgli sui piedi di cemento coi tacchi, e invece sorride e si ricompone.
“E' inutile, io non la sento” fa ancora Luigi, fermo su dieci pilastri.
Javier, lì intorno, disegna geroglifici solo con le punte, dialoga a livelli che a noi sfuggono con certe voci profonde della musica, o anche solo la cadenza remota dei bassi, quella che tutti noi avvertiamo nel diaframma, in qualche punto buio dell'immaginazione. Tutti tranne Luigi, si capisce.
La Principiante Entusiasta allora decide di prendere in mano la situazione: “Vedi – dice a Luigi con voce soave – è facile: uno-due, uno-due, uno-due” e – contro ogni legge del tango, della cadenza, della giustizia ritmica e biologica - se lo porta via, per strade di milonga alla rovescia. Guida lei, continuando a dirgli “uno-due, uno-due” tra i denti sempre più stretti. Luigi è persino docile, e trascina gli scarponi con disciplina. La musica si fa d'una gaiezza travolgente, e la Principiante spinge Luigi con un ardore cattivo che fa odore di bruciato. O forse sono le sue intenzioni, o i suoi tacchi sul parquet, o la sua delusione di femmina.
Alla fine – ed è una di quelle milonghe con due facce che si fermano di botto, e rallentano in tre passi fino allo sfinimento ed al silenzio – siamo tutti fermi, inchiodati sul passo tre o cinque, tranne Javier che ha appena chiuso a tempo trascinando una corrida sull'impiantito, una carezza che pure le fondamenta del palazzo hanno sentito.
Javier va da Luigi, che adesso è solo perché la Principiante Entusiasta è corsa lontano a ricucirsi l'amorproprio e la sottomissione tanguera.
Javier è proprio davanti a Luigi, e sono fermi tutti e due, ma non si somigliano per nulla.
Quella di Javier è un'attesa piena, senziente, un movimento potenziale che colma tutto lo spazio d'acquario della stanza.
Luigi è semplicemente aggrappato al suo no.
“Luigi – dice la voce morbida di Javier – non senti?”.
Tendiamo tutti l'orecchio, perché la musica è finita e il ritmo s'è spento da tempo contro gli specchi, dentro il parquet, nei muri, fino alle fibre dei tramezzi.
Javier solleva appena una mano e allora sì, lo sentiamo tutti, quel cavo d'acciaio e argento che è dentro il tempo e il corpo e la musica, anche nel silenzio. Vibra come una radiazione di fondo, una nota bassa costante. I nostri corpi annuiscono. Non quello di Luigi.
“Non importa – dice Javier – lo sentirai anche tu. Insisti”.
Sorride come se ogni cosa sia possibile, Javier, e lui – che ha ventitré anni qualche volta, più spesso centotré – le ha già ballate tutte. Anche questo, indubbiamente, è tango.
4) DITELO CON UN OTTO - lezione di tango quattro
"Il mio polso batte al ritmo del tango. Me lo dicono i medici, non è una fantasia..." ( Astor El Gato Piazzolla )
In fila alla Posta, quando è toccato a me, ho fatto un passo avanti, strofinando la punta della scarpa sul parquet: era un Passo Uno.
Sul bordo del marciapiede, indietreggiando alla fermata, ho incrociato: Passo Cinque. Il passo in cui la donna s'inchioda e s'incrocia, e lui decide cosa vuole che sia, la loro relazione, per i prossimi tre o otto passi, o un tango intero o una serata o una vita.
Dal fioraio, incerta tra un tulipano corto e un casablanca, ho fatto un intero ocho adelante , passo sinuoso della titubanza, moltilplicazione della pausa, passo frattale in cui – dice Javier con la sua voce morbida, perché la voce è corpo - ciascuno cerca la schiena dell'altro senza trovarla mai, mai . Passo della scelta sospesa, come la vita per otto passi (e lo sapete che l'otto rovesciato è il simbolo dell'infinito? Ogni otto che le punte disegnano sul pavimento è un tentativo d'infinito, come ogni tango e forse ogni vita).
Andando verso la macchinetta del parcheggio l'ho supplicata con un ocho cortado , dramma in due passi e centoventi gradi di pentimento.
L'altra sera, nella stanza del direttore, nessuno lo sa, ma io ho fatto il Passo Sei e Sette, e un lievissimo battito nel Passo Otto ha detto chiaramente che noi del sindacato non eravamo d'accordo, e non stavamo uscendo ma chiudendo la trattativa.
Perché – riflettevo – non è solo quel che della vita porti nel tango, ma quello che cominci a portare del tango nella vita. Una rivoluzione di pesi, un ascolto da dentro che non avresti mai sospettato. E il corpo che si presta, ti regala la sua prodigiosa memoria di movimento, ti traduce i gesti nel linguaggio a otto passi e trentadue battute che sta imparando da solo, oltre e malgrado te.
La verità è che non si riesce del tutto a uscire da quella sala di legno e specchi.
Ieri mattina – che era un giorno di mutamenti rapidi, capriole nel cielo e scirocchi – stavo ballando, sul corso Cavour, col Principiante Asceta, che è l'evoluzione rapida e naturale del Principiante Responsabile: lui si sente investito in pieno della responsabilità maschile di condurre, e dice di continuo “è colpa mia, è colpa mia”. Il che è un sollievo, visto che alle prime cinque lezioni è pieno di Principianti Colpevolizzanti che non fanno che dirti, presi dal panico, “è colpa tua, è colpa tua”.
Era un giorno di scirocco e milonga, di cieli rapidi e ritmo, e l'ho anticipato solo un paio di volte, nella baldosa davanti alla biglietteria e al Palazzo dei Telefoni. Quando mi sono fermata all'edicola, sul passo sei, gli ho sussurrato: perdonami, sono stata io a correre. Ma non era vero: era un otto con le parole, un movimento che non va da nessuna parte, un dialogo per curve, pivot e impossibile.
Al ritorno, mi sono accorta di ballare col Principiante Furbo, quello che m'ha proposto, quando occhi negli occhi provavamo a pesarci, a capirci di baricentro: “Ma perché non ci mettiamo d'accordo sui passi?”. Sono scoppiata a ridere e gli ho detto che era un tango, non una briscola. E' tornato serissimo, e ho percepito una linea di mortificazione nei suoi passi due e sette, lunghi fino al trentanovesimo parallelo.
Ho ballato senza dirgli nulla - con lui e almeno una decina di altri ignari passanti - fino all'ingresso dell'Orto botanico, e tutto sommato credo che l'avemmo vinta, quella briscola.
Sono rientrata a casa disegnando un numero imprecisato di otto sull'impiantito, al portone, davanti alla guardiola del portiere, all'ingresso della palazzina B, davanti alle cassette postali. Al secondo piano l'ascensore s'è fermato, a tempo.
5)TELEPATANGO - lezioni di tango cinque
"... uno sente il decoro tremendo di essere tango..." Mario Benedetti
Che ormai dovremmo saperlo: il problema non sono i passi, ma la comunicazione. Il problema non sono le intenzioni, ma il dialogo. Il problema non sono le figure, ma i pesi. Il problema non sono i movimenti, ma le pause. Ecco.
Così alla lezione di ieri Javier – che andrà via tra una settimana e già comincia a trascolorare nella distanza e nella partenza, diventa color Buenos Aires, che è un blu oceano e sala da ballo molto molto scuro, si fa scattare foto ricordo e colleziona sciarpe, fratelli e ricordi – ce lo ha fatto fare.
Sì, l'abbiamo fatto.
L'abbiamo fatto tutti, in coppia come all'inizio del mondo, un Adamo e una Eva senza parole da dirsi, senza risorse, dentro un Eden ostile e irresistibile in 32 battute e bandoneon.
Javier c'ha detto: Chicos, è il corpo che parla, voi dovete tacere .
S'è fermato, in silenzio, e il brusio poco convinto di tutti quei corpi riempiva la stanza.
Chicos, zitti . I corpi hanno taciuto.
E allora ce lo ha fatto fare, uno davanti all'altra.
Abbiamo ballato tenendoci solo per una mano, l'altra ben nascosta dietro la schiena. La mano destra della donna nella sinistra dell'uomo. L'uomo deve porgere alla donna uno specchio per rimirarse , ci aveva detto Javier la prima volta, spiegandoci l'abbraccio. E aveva mostrato la sua mano sinistra alla ballerina, che s'era specchiata e s'era vista, vestita di tango e di quella trepida ammirazione, quel rispetto, quella correttezza d'otto passi che il maschio deve tributarti, che fa da contrappeso alla tua devozione di femmina, alla tua ferma decisione di farti portare, ovunque.
Ci siamo specchiate tutte, e onestamente eravamo molto belle, persino in quegli specchi incerti e scuri, non ancora lucidi come l'argento dello specchio di Javier, dove, a sporgersi e guardare, si vedono mondi interi, e persino il futuro e il passato, e tracce di tanghi vecchissimi che ancora qualcuno sta ballando, da qualche parte, e i tanghi che risuonano dentro ciascuno di noi, vestiti di passato o di speranza.
Specchio contro specchio, abbiamo ballato. Ma Javier non era ancora contento, e ce lo ha fatto rifare, stavolta la sinistra della donna sulla spalla dell'uomo, la destra dell'uomo sulla schiena della donna: l'altra metà dell'abbraccio, dove non ci sono giustificazioni o mediazioni di quella grande mediatrice e traduttrice e ambasciatrice e ruffiana che è la mano, il succedaneo - o antecedente - fisico della parola, la mano che indica, stringe e decifra.
No, l'altra metà dell'abbraccio è già tutta dentro il linguaggio oscuro del corpo, i suoi passi che sono sì , le sue pause che sono no , le sue torsioni che sono forse .
Il torso, chicos, sa tutto , dice Javier. E interpreta un intero dialogo solo con impercettibili mosse, le figure si disegnano nell'aria e noi capiamo chiaramente. Il torso sa tutto, come il corpo. Ma noi no.
Eppure balliamo, dimezzati, anfibi, centauri tangueri. Balliamo, e parole silenziose e incandescenti cadono tra noi come gocce di sudore, o perle che rotolano sull'impiantito. Ci arrovelliamo in ochos, indietreggiamo e sbarriamo il passo, danziamo la sottomissione e la protervia. Adesso, infatti, alcuni di noi hanno già la Faccia da Tango.
Non viene subito, la Faccia da tango, ma dopo un po' sì.
E' una faccia intenta e rivelatrice. La faccia che fa il corpo quando nessuno lo guarda, quando tocca a lui.
Ho ballato col Principiante Furbo, che ora è diventato Principiante Appassionato, con una faccia da torero e la testa bassa che mi piacciono moltissimo.
Il Principiante Galante ha invece la sua Faccia da Vals, foderata di velluto, toccata di magnolia, e mi piace allo stesso modo.
La Principiante Indissolubile – ce ne sono sempre un paio, di Principianti Indissolubili, maschi e femmine - ha tentato una Faccia Ispirata, e il partner l'ha severamente punita con un ocho atras moltiplicato all'infinito. Lei ha ripreso subito la sua Faccia Ansiosa in cui lui ama specchiarsi. Non durerà ancora molto.
Alcuni hanno ancora la Faccia Rassegnata, la Faccia Mio Malgrado, ma la perderanno presto.
Balliamo, e i corpi miracolosamente ci precedono e ci fanno strada, pur dimezzati come siamo. L'altra metà dell'abbraccio funziona, fragile e miracolosa: balliamo come se fossimo sul filo, balliamo sul precipizio, attenti a non far precipitare quel contatto, quel tocco misterioso di corpi e anime. Ma Javier non ha ancora finito, con noi.
Ora – ci dice serissimo, con quel viso di bambino centenario – ballerete senza . Senza cosa? Senza parole balliamo già. Senza discorso, balliamo già. Senza finzioni, teoria, note a margine, leinonsachisonoio, titoli di studio, libri letti, formule matematiche, liste della spesa, errori di grammatica, solitudini, ricordi, balliamo già. Senza cosa?
Senza abbraccio, è ovvio.
Per un attimo è il panico. Senza abbraccio? E come faremo a parlarci, a dircelo, a condurci, a procedere assieme?
Ci sentiamo risprofondati nella vita, dove non c'è abbraccio, ed è tutta una guerra quotidiana a spiarsi le intenzioni, a tradursi, a esaminare vocabolari e testi a fronte (ma lui ha detto, ma cosa avrà voluto dire, ma non ti sembra che, ma…).
Senza abbraccio? E cosa sarà a legarci? Come nella vita, saranno lo sguardo, le intenzioni, i movimenti minimi che si propagano nell'aria come vibrazioni? Come nel tango, saranno il rumore dei passi sull'impiantito, il viso che si volge, il pentimento che batte un colpo secco, l'otto che si fa infinito sotto i tacchi, e poi di nuovo?
In piedi, uno di fronte all'altra, un Adamo e una Eva cinque minuti dopo la creazione, senza nemmeno una parola tra loro, e solo la foglia di fico della musica, gli occhi negli occhi – e finalmente, che i principianti si vergognano di tanta prossimità, e ballano guardandosi il collo, gli zigomi, il lobo dell'orecchio o le pareti in fondo – abbiamo ballato.
Gli occhi dentro gli occhi, i corpi paralleli che si sforzavano di sentire ogni cosa, protesi fino allo spasimo, dentro e fuori di sé. Abbiamo ballato intuendoci fino quasi a toccarci, sfiorandoci con le dita invisibili delle intenzioni, delle figure che ballavano tutto attorno a noi, disegnate a cerchi nell'aria, sul parquet, negli occhi indecifrabili di Javier che camminava tra noi, pastore di gesti.
Abbiamo ballato con le bocche cucite, bendati. Abbiamo ballato così zitti da essere assordanti, mentre i corpi si urlavano comandi da distanze inimmaginabili, Adamo sull'orlo d'un burrone, Eva su un altro, e la neve e la musica che vorticavano in mezzo. Abbiamo ballato per telepatia.
La felicità, se c'è, è un luogo senza parole.
6) MILONGA DI CENERENTOLA - lezioni di tango sei
Non si ballano figure o passi, si balla la musica
Cenerentola camminava di notte, diretta verso il cerchio d'un lampiocino bianco, un cancello e l'incerta promessa d'una rivelazione. Cenerentola camminava e intanto i vestiti le fluttuavano addosso, e mutavano di forma e intenzione: al posto del maglioncino penitenziale e stretto al collo appariva un blusa fluida e scollata dalle maniche trasparenti, al posto dei bottoni appariva un nastro da annodare, al posto della gonna grigia da istitutrice appariva un taglio di seta sbieco attorno alle ginocchia, al posto delle calze spesse appariva un velo nero e sottile.
L'ultima trasformazione avvenne subito dopo il cancello, nel viottolo che conduceva alla sala: al posto degli anfibi da guerra apparvero un paio di scarpe di cristallo col tacco, lacci incrociati e una piccola fibbia d'argento.
Col suo primo passo al di là della porta, Cenerentola entrò nel cuore della milonga. Era una milonga d'arrivederci, spessa e piena d'un rosso che per qualcuno era una sciarpa di seta, per qualcuno geroglifici su un abito di raso, per qualcuno vodka alla fragola, per qualcuno scarpe di velluto annodate alla caviglia, per qualcuno succo di cuore.
Cenerentola non conosceva quasi nessuno di quelli che ballavano, ma parecchi di quelli che non ballavano: seduti tutto attorno, guardavano affascinati i piedi dei ballerini, che in quel momento erano impegnati in appassionati dialoghi intrecciati sopra e sotto un tango acuminato, con lunghe punte di freccia infilate a caso dentro la notte.
Quelli che non ballavano guardavano come avrebbero guardato il primo fuoco acceso in qualche prateria preistorica, la prima ruota costruita con un tronco, la prima selce scheggiata. Guardavano i mondi che cominciavano e finivano in ben più o ben meno che otto passi. Poi si guardavano tra loro, e si chiedevano – senza dirselo – ma dove sono gli otto passi? Cosa stanno facendo? Cosa stiamo facendo noi, qui?
Cenerentola si guardava le punte delle scarpe di cristallo, che riflettevano la luce nera della sala, e si diceva che non aveva importanza: loro, le scarpe, conoscevano i passi che lei non sapeva, e avrebbero ballato loro, le scarpe, col principe.
Intanto, principi e principesse andavano in senso antiorario, e lentamente si delineava la geografia emotiva della serata, rimescolata dalla musica che Javier comandava con un solo tocco: agitava la mano nell'aria, e subito la stanza girava a milonga, R. partiva a cavallo comandando uno squadrone di ussari che conquistavano cinquanta territori e una dama dalla sciarpa rossa, N. attraversava le Americhe ondeggiando e scopriva l'Europa (che è anche l'andirivieni del tango, tra pezzi d'Europa e pezzi d'America che si cercano, come i ballerini cercano l'uno la schiena dell'altro senza trovarla mai), L. faceva spumeggiare le balze della gonna viola cupo, con brevi contraddizioni e volteggi che facevano oscillare il baricentro della sala. La milonga strepitava sul parquet, battuto da decine di punte e tacchi, e Cenerentola si sentiva felice solo di questo.
Poi Javier cambiava d'umore, faceva un gesto secco col polso e partiva un tango inquieto, dipanato su un solo filo luccicante che attraversava tutta la notte. Le coppie s'avvicinavano, e ciascuna appendeva qualcosa a quel filo: parole sussurrate e lentissime, otto disegnati e ridisegnati l'uno attorno all'altra, scarpe bianche e nere, incroci, ganci, il dorso del piede che strofinava sulla stoffa, comunicava la sua carezza impossibile, rivestita di sfida e duello.
Ogni coppia cesellava qualcosa sul parquet, e i cerchi restavano a brillare debolmente, fino a che tutto il pavimento risplendeva di passi perduti, ingoiati dalla notte e dal divenire impietoso e straziante della musica.
Cenerentola osservava quelle scritture, ma non sapeva decifrarle. I suoi compagni di sedia – i Principianti Iniziati, i Principianti Vergini, i Principianti Timidi, i Principianti Arditi – provavano pure a leggerle, voltando la testa da un lato e dall'altro, come a cercarne il verso. Un sospiro zitto si alzava da tutti loro, inavvertibile.
Poi, accadde.
Qualcuno si presentò a Cenerentola e le prese la mano.
“Guarda che io non so ballare” disse Cenerentola col capo cosparso di cenere, ma le scarpette di cristallo che scintillavano.
“Sai gli otto passi?”s'informò lui, cortese.
“Quelli sì” .
“Allora possiamo andare ovunque” concluse lui, e lei lo amò per almeno otto passi.
Lui la tirò a sé – si chiamava Principe F. e, da qualunque parte del mondo venisse, veniva da Buenos Aires apposta per lei e per quel momento - e anche lei entrò nel cerchio. Spaventata dal suo stesso ardire, portata dagli otto passi, dalle scarpe e dal ballerino, senza nemmeno sapere come, attraversò tutta la stanza e buona parte della notte.
Nessuno sa cosa ballò, quella notte, Cenerentola.
Qualcuno dice un tango greco, straziante e con gli angoli avvolti nel ferro filato, nelle spezie e nel miele, qualcuno dice un tango negro pieno di tamburi, qualcuno dice altre musiche ancora, tracciate col compasso d'argento nella carta spessa della notte.
Nessuno sa con chi ballò, quella notte, Cenerentola.
Qualcuno dice con un Principe Porteño travestito da brigante siciliano, gli occhi a carboncino e salidas vellutate ed incendiarie, qualcuno dice con uno dei Principianti Terrorizzati, di quelli seduti, gli occhi fissi sulle caviglie dei ballerini a contare, senza che nessuno dei multipli di otto apparisse e chiarisse cosa stava succedendo – visto che sulla pista avvenivano duelli, lutti, dichiarazioni, pentimenti, tradimenti ed eroismi che non si potevano assolutamente misurare col metronomo degli otto passi, quello che a lezione funzionava così bene - , qualcuno dice con uno dei Principianti Volenterosi, come V. il Biondo, la cui cadenza dolce s'apprezza in quel che dice e soprattutto in quel che tace. Qualcuno dice pure che ballò l'ultima milonga della milonga con Juan il Capitano in persona, e ogni passo sapeva di risacca e ritorno.
Nemmeno Cenerentola potrebbe dirlo.
Solo che, tornando a casa, scoprì che aveva ancora una delle scarpette. Cristallo nero, lacci incrociati e una fibbia d'argento. Cenerentola sorrise e disegnò un piccolo otto: sulla punta della scarpa si riflesse, per un attimo, la luna.
In memoria della mia prima, terribile milonga: ringrazio Farolit la sirena per avermi portata lì, e avermi dimostrato che persino le sirene ballano il tango, i miei amici Principianti per aver diviso con me seggioline, stupori e bicchieri di prosecco con un lieve perlage d'ansia, tutti quelli che - incredibilmente - m'hanno fatta ballare quasi davvero, Javier che era dentro tutti i passi e tutta la musica.
7) TRAGEDIA TRASPIE' - lezioni di tango sette
C'è, c'è sempre, ammettiamolo.
L'abbiamo sentito un sacco di volte. Magari non sapevamo come si chiamasse, oppure volevamo ignorarlo, ma c'era.
Quella microscopica contraddizione. Quel bastiancontrario d'un istante. Quel dubbio nel cuore della certezza. Quel fiocco di neve in mezzo al fuoco, quel cristallo di sale nello zucchero. Quella sillaba. Quella piega del labbro. Quello sguardo, di spalle. Quel gesto della mano, sfuggito a tutti.
Quel passettino in controtempo, nel bel mezzo di.
Ora sappiamo come si chiama: traspiè.
Ce l'ha detto, con la sua melodiosa parlata argentina, Javier. Non ha battuto ciglio (ma forse anche i cigli battono il traspiè, ed è un tremito dello sguardo così istantaneo che solo gli angeli possono percepirlo, ma anche se non lo vediamo ci disorienta, come ogni traspiè), e ci ha detto: sì, certo, un passetto in controtempo, un traspiè . E l'ha fatto. Era un passo due, e improvvisamente è stato qualcosa d'altro. Spezzato nel mezzo della fronte da un colpetto piccolissimo, così veloce che nessuno l'ha visto.
Di fronte al nostro stupore, Javier l'ha rifatto, quasi senza muoversi. Il passo nasceva da solo, armonioso, e da solo scambiava i pesi per un istante, con un colpo sull'impiantito che risuonava nella nostra immaginazione e per le strade del quartiere, battute dallo scirocco e dal levante.
Era una serata tropicale, con lunghe liane che spuntavano dal soffitto, coccodrilli ormeggiati al marciapiede e il parquet appiccicoso di tristezze e caglio lunare. Avevano pure sparso borotalco, e tutti andavamo a battere le suole, imbiancare la pelle di bufalo ben tesa sotto le scarpe. Sudavamo copiosamente, tutti tranne Javier che portava una giacca d'oceano e continuava ad essere fresco e abbagliante, mentre gli uccelli della foresta invadevano la sala e il parquet sobbolliva lentamente sotto una milonga assolata.
Sudavamo, e ancora non sapevamo bene cosa aspettarci. Il traspiè, come certe formiche tangarana, aveva cominciato a corrodere da dentro, con piccoli colpetti ancora inavvertiti, la nostra certezza principiante d'aver capito qualcosa della milonga e della vita.
Javier c'ha fatti schierare, faccia allo specchio, dove soltanto lui appariva bello. Poi c'ha comandato certi passi in croce, in tre tempi anzi due e mezzo, e il mezzo in contrappeso e controtempo. In due minuti, eravamo tutti a battere e guardare, terrorizzando gli aironi azzurri e le scimmie tropicali portati fino a lì dallo scirocco. Javier passava in mezzo a noi, che sudavamo per il caldo e il terrore di non farcela, e cedevamo uno a uno, sconfitti. Il ritmo trafitto però sopravviveva ai nostri tentativi, creava un codice morse, una sequenza che si trasmetteva alle fondamenta, al selciato, ai fili della luce, agli alberi stenti, alle ringhiere, e tutto il quartiere batteva traspiè, fino all'orlo chiuso delle nuvole.
Il traspiè cade nel mezzo, ruba il tempo, ruba il peso. E' un passo beffardo, sacro a Hermes (che non a caso aveva le ali ai piedi, come Javier), dio dei furti, della velocità e dei controtempi. Un passo impossibile, per noi principianti disegnati da Botero, con addosso duecentocinquanta chili di dubbio, impaccio e timidezza.
Così, quando Javier ci ha detto: in coppia per tutta la sala (e accompagnava sempre questa frase a un gesto con la mano, come se tirasse un capo dall'abito del nulla e lo portasse a sé, come il riassunto in tre dita d'un abbraccio trasparente che collega magicamente le cose, le persone), ci siamo avviati con la faccia dei gladiatori. Morituri te salutant.
Javier ha comandato una milonga, e lì è stata la strage.
Il ritmo saliva gaio, e pure gli alligatori del fiume tropicale lungo la strada muovevano le code a tempo. Era una milonga effervescente e piena d'ossigeno, ma noi boccheggiavamo, sotto il livello del parquet. I nostri passi s'invischiavano, ci facevano sprofondare nella cera molle, nel pantano, nella colla. Tentavamo traspiè che ci si rivolgevano contro, ci sbilanciavano da un lato, ci facevano precipitare. L'abbraccio diventava una guerra civile, e in meno di due minuti stavamo litigando tutti.
La milonga era una sabbia mobile che ci inghiottiva, e facevamo movimenti frenetici per evitarlo, senza riuscirci, scivolando più in basso, nella morsa del fango, dello scirocco e dell'umiliazione.
Una metamorfosi era in atto: eravamo tutti Principianti Feriti a Morte, Principianti Litigiosi, Principianti sull'Orlo di una Crisi di Passi. Ci ostinavamo a battere quel dannato traspiè, che invece si girava e ci mordeva gli stinchi, e ci faceva urlare di rabbia. Le baldose dilaniate giacevano in pezzi per tutto il pavimento, e il rumore di cocci copriva le ultime note della milonga e la voce di Javier che s'aggirava per il campo di battaglia dicendo inutilmente: Chicos, chicos, tranquilli… non è facile, lo so.
Per P. era una questione personale: aveva preso il traspiè per il collo, e lo teneva stretto, cercando di domarlo. Il traspiè si scuoteva, e in due minuti l'aveva già disarcionato.
M. stava cercando d'addomesticare le sue scarpe, ch'erano possedute dal traspiè e non si fermavano più: M. girava attorno alla colonna, usciva in strada, tornava nell'atrio, e il traspiè la riportava fuori.
B. aveva pensato di prenderlo con le buone: senza che il traspiè lo vedesse, gli era arrivato alle spalle. Il traspiè s'era girato di scatto, e l'aveva messo ko.
S. aveva deciso di non guardare in faccia la milonga, e di fare il traspiè lentissimamente, per non dargli il vantaggio della sorpresa e della velocità. S'era bloccato in mezzo al movimento, il traspiè di traverso nella gola e sul parquet, senza riuscire ad andare né avanti né indietro.
F. lo inseguiva per tutta la sala, e il traspiè si girava e gli faceva le boccacce, andando ancora più veloce.
N. aveva preso la mira, e aveva lanciato un sasso proprio in mezzo alla fronte del traspiè, per inchiodarlo. Il sasso, miracolosamente schivato, era tornato indietro e gli aveva frantumato tutto il passo tre, che era caduto al suolo con un rumore di cristalli.
G., nascosto dietro il tramezzo, lanciava frecce piumate al traspiè, e quello velocissimo si spostava, e le frecce colpivano a caso le caviglie dei principianti.
L. aveva teso una trappola: un quadrato di sei passi, e al centro un'esca bella grassa. Il traspiè s'era avvicinato (i traspiè sono golosi, lo sappiamo tutti: mangiano istanti e ritmo, mangiano caviglie e malleoli, mangiano spazio e tempo), aveva annusato e aveva fatto per chinarsi. L. aveva chiuso il quadrato ma era troppo tardi: il traspiè era fuggito, con la bocca piena. I sei passi giacevano scomposti sul pavimento.
Un gruppo di principianti aveva organizzato una rudimentale resistenza: continuavano a fare otto passi, ignorando milonga e traspiè, che sporgevano dalla fessura della porta le canne di fucili a piombini, e sventagliavano a ogni passo cinque.
Chicos – la voce di Javier risuonò alta alla fine della musica, in quel panorama di rovine.
In fila, disse cupo come lo scirocco.
I feriti si alzarono a fatica, trascinando i piedi in mezzo alle alghe e alle macerie, e tornarono in fila, faccia allo specchio. Un-due-due e mezzo. Tempo, controtempo, tempo. Nero, bianco, nero. Il no che c'è dentro ogni sì, l'aceto che c'è dentro ogni miele, l'inverno che c'è dentro ogni estate, il silenzio che vibra in mezzo alle parole.
Javier passava tra noi, la testa bassa, mentre i traspiè scorrazzavano per la sala, velocissimi che non si poteva dire nemmeno che colore avessero.
Color dubbio. Color assenza. Sì, sarà quello, il colore.
8) MILONGA DI PRIMAVERA - lezioni di tango otto
Ci sono venuti proprio tutti.
Alla Milonga di primavera, dico. L'equinozio aveva cominciato a girare sui cardini, la notte cigolava in quattro quarti, e il popolo della milonga s'è adattato spontaneamente a quel ritmo, facendolo risuonare sulle doghe di legno dell'impiantito, dove i passi battevano, non diversamente dai colpi secchi della linfa che rimetteva in moto l'ascesa e la rinascita, dopo l'inverno, nelle magnolie e nei ficus della piazza.
E chi poteva resistere, d'altronde.
Così ci sono venuti tutti. Per ballare, per parlare, per guardarsi reciprocamente, dai divanetti e dai bordi della pista. Per conversare, ammirarsi, voltarsi le spalle. Per mostrarsi, soprattutto.
Dico loro, gli accessori. Scarpe, collane, cappelli, calze, foulard.
Bolerini, lustrini, fermagli. Anelli, cinture, bottoni.
Il cappello di R. era di lamè d'argento. Una cloche di petali, una forma volata diritta dagli anni Venti, sulle ali d'un vals criollo. Così, gli occhi splendenti e assorti in un altrove, R. ballò tutta la notte dentro la luce d'acquario degli anni Venti: i suoi ochos scavalcavano anni e guerre, si formavano come anelli di fumo, anelli di perle, e si annodavano stretti piovendo nel tempo chiuso della sala. Persino un Principiante Assoluto si trovò a scavalcare quegli ochos, sentendo l'eco di orchestre perdute (" Ma non avete sentito anche voi?" andava chiedendo dopo ai Principianti Pulcini che affollavano la milonga, rosa tenero e giallo limone e azzurro cielo, mentre sul parquet la notte vibrava nera e rosso rubino. "No, non abbiamo sentito " pigolavano quelli, mentre il cappello di R. appariva e spariva, in lontananza, sulle note remote).
Anche le scarpe di C. venivano da lontano. Velluto nero e otto centimetri di pura volontà tanguera. La supremazia alla rovescia della donna passa per le punte e i tacchi, per l'aristocrazia del piede, lo smalto cremisi sulle unghie, lo splendore della pelle. Passa per l'arroganza delle strisce di camoscio e velluto che non cingono ma mettono in mostra, fingono di contenere e invece espongono. Passa per la sfida implicita nel piede quasi nudo, esposto: non temo alcun male, se sei tu a condurmi.
Ogni tango è fondato su questa breve professione di fede, su questa fiducia eterna di tre minuti e mezzo. Cieca e all'indietro, come le donne sono abituate a risalire i corsi fluviali della vita.
Ma C. camminava regale sui suoi otto centimetri di perfezione, che davano una docilità di pantera nera al suo abbraccio, ai suoi passi, ai suoi semicerchi sul legno. Ballerina temibile, una lama nascosta nelle pieghe felpate d'un tango intimista, racchiuso, ornato d'impercettibile, C. sgominava i maschi, ma col volto dell'innocenza. "Io? Io non c'entro... sono state loro " diceva, indicando le scarpe. Il suo tango, intanto, continuava a muoversi da solo, in pista, come un solco di velluto, nero nella notte nera.
B. aveva un fermacravatta nuovo: sperava gli suggerisse nell'orecchio il momento migliore per fermare una donna in preda a ochos atras , andando di mordida . Il fermacravatte taceva insistentemente.
N. aveva pure un dopobarba verde come una milonga. Il suo corpo sprofondava nelle volute della musica portando un sentore di vaniglie, legni dolci, frutti di pane, spiaggia. Affidarsi a lui era come acconsentire alla brezza, passeggiare senza sforzo apparente sui ciottoli lisci, seguire le linee d'acqua e sale mosse dalla milonga in tutta la sala. Nessuna musica lo spaventava, nessuna donna era un carico troppo gravoso: N. era un prezioso punto di leggerezza dove la notte s'assottigliava, si diluiva, diventava facile come una canzone. Il suo tango era marino, lieve, intento, persuasivo.
P. avrebbe voluto avere le sue scarpe da trekking, mentre si sforzava di decifrare i semicerchi tracciati sul pavimento dalle coppie a testa bassa, immerse in un tango buio e pieno di spilli. Le sue scarpe da trekking pensavano a lui, nel buio dell'armadio.
E. misurava la notte ad abbracci, e li mostrava - così differenti e sciorinati per la sala - a Cenerentola, che per l'occasione aveva aggiunto alle scarpette di cristallo un corpetto nero di stoffa leggera, con spacchi triangolari sulle maniche e lunghi lacci. Distanza e contatto s'alternavano nella tessitura della stoffa e del dialogo, secondo una trama che a lei a tratti sfuggiva, dove lei non poteva che infilare punti d'ordito, di tanto in tanto, entrando nello spazio che lui le preparava, anticipava attorno a lei, sgomberava per lei.
Gli spacchi e gli spazi si aprivano, i lacci volavano, come i capelli. E tutto era passo.
T. aveva una gonna traspiè su calze a rete fitta.
A. era bellissima, con pantaloni aperti sulle caviglie a mostrare una costellazione di pois in rilievo sulle calze nere. E' il segreto delle donne e del tango: tu camminerai all'indietro, e ti svelerai velandoti, ignota a te stessa.
Così lei avanzava nella notte all'indietro delle donne, e le caviglie e i pois brillavano di lampi brevissimi nella sala.
F. a un certo punto aveva dovuto sostituire la camicia bianca, zuppa di milonga ed entusiasmo, con una maglia nera. E aveva ballato una notte mezza bianca e mezza nera, mezza tango e mezza milonga. Una notte perfettamente separata, come l'unità divisa e contrapposta della danza.
A. aveva scarpette d'argento e una stella di cristallo al collo. La sua natura gaia ne veniva moltiplicata, e le sue rapide baldose erano guizzi di piccoli pesci fuori dall'acqua scura.
S. s'era infilata lunghe maniche ricamate che disegnavano fregi sulla pelle candida. Come certi tanghi in controluce e intaglio, dove non sai da dove venga e come si componga la figura che vedi, contro lo sfondo. E ti chiedi se sia la logica conseguenza dei passi, o l'avvicendarsi nella trama del dialogo, o il gioco di pesi, e non è nessuna di queste cose, ma solo la musica che emerge attraverso i corpi, segnandoli come un ricamo.
Gli accessori discutevano fitto tra loro, e ballavano, e bevevano Merlot. Ogni tanto guardavano la gente in pista, distrattamente.
Questo per la mia seconda milonga, imprevedibile e sfrenata.
Era una notte di primavera e cecità diffusa, visto che ho ballato moltissimo, intere milonghe di strepito e persino cumparsite tre a tre, e ho trovato una diecina di maestri, rubando pezzi di verità e interi passi.
Si ringraziano in particolare farolit (lei sa perché), N. ed E.
MILONGA DEL BOTTONE - lezioni di tango nove
Ci sono milonghe appoggiate sul bagnasciuga, mosse in qua e in là dalla risacca, di sbieco sulla sera o sulla notte di primavera, che per sua natura è notte d'echi, tentativi, ondeggiamenti, sussurri. A volte la milonga, che è ancorata malamente alla spiaggia, s'allontana, e galleggia per alcuni metri. Poi le onde la spingono indietro, e la restituiscono ai ciottoli e alla sabbia.
Perché il tango è come il mare: quello che prende, poi restituisce. Ti prende tempo, gesti, attenzione, esercizio, esaltazione, sudore, frustrazione, accanimento, pelle, piacere, dolore, e poi - a un certo punto - te li restituisce.
Così, quella milonga rossa stava tra spiaggia e mare, un po' dentro e un po' fuori. Sul tavolo del buffet c'erano torte incoronate di fragoline, ma soprattutto c'erano tulipani di satin e paillettes rosse che luccicavano nei vestiti delle donne, e la blusa di Cenerentola, quella sera, era chiusa da un solo, piccolissimo bottone di seta vermiglia.
Sulla pista, che era un cerchio imperfetto, la temperatura era già altissima - che la primavera delle milonghe è africana e infuocata - gli uomini sbuffavano e i passi lasciavano lente tracce liquide.
Qualcuno aveva scelto tandas di lunghi tanghi intimisti, che rimescolavano una quantità imprecisata di ricordi porpora e magenta. Lo spazio era poco, il parquet denso e umido, ed era necessario fermarsi a lungo, dialogare in giri e figure, i tacchi che si sollevavano e s'abbassavano, tali e quali alla risacca. I punti rossi - il bottone, le fragole, i tulipani, le paillettes una per una d'un vestito da sirena, le iridi rosse di certi uomini venuti dal passato, i cinturini delle scarpe - s'accendevano sparsi nel buio già alto della sala, come un percorso di guerra.
Improvvisamente, dal bagnasciuga si levò una figura incerta. C. lo riconobbe subito: era un suo errore di gioventù.
L'aveva incoraggiato in ogni modo. L'aveva convinto che poteva farcela anche lui, che il tango è una democrazia e basta avere disciplina e fiducia nel meccanismo elettorale. Così lui, che - dopo anni - continuava a sbagliare tutti i nomi e tutti i passi, era diventato una rossa mina vagante.
Partì dal sud della pista, che era affacciata direttamente sul languore della sera, e sterminò ogni cosa davanti a sé. La sua milonga contundente urtava tutte le coppie, e lui si faceva scudo e arma della donna per aprirsi varchi nel mezzo della sala.
Gli avevano detto, dopotutto, che l'uomo conduce e la donna risplende , così lui portava di peso la donna, strattonandola in quattro quarti, e le faceva splendere lividi vermigli sulle caviglie.
Assorte, sul bagnasciuga, C. e le altre guardavano quel mostruoso risarcimento che si muoveva con la grazia d'un tumulto nella piazza, d'una guerra civile, d'un broglio elettorale.
Il tango prende e il tango dà, pensavano.
M. intanto sperimentava croci e delizie del controtempo - aveva da poco imparato a piazzare picas leggerissimi, di punta o di tacco, tutto attorno al passo, e se li coltivava come fiori di serra, sapendo che sarebbe bastato pochissimo per farli sfiorire, trasformarli in un caos d'inciampi nello scorrere impietoso del ritmo - in quella pista da fermi dove solo la corrente spingeva un poco le coppie, che talvolta si lambivano, sfiorate l'un l'altra da un adorno , da un boleo particolarmente alato, da una patadita rapida come un battito di ciglia.
F. le aveva offerto un'educata milonga non priva di gaiezza, solo leggermente trasversale, che lei aveva apprezzato particolarmente, dove i suoi golpecitos avevano potuto brillare come perle di fiume.
Perché a volte la milonga risana le ferite (all'ego e alle caviglie) che il tango ha aperto.
Per esempio S.
Era il decano dei milongueri, quello che aveva portato gli otto passi tra tutti loro, e ballava - senza sforzo apparente - passi mai visti prima. Cambiava persino di forma, mentre ballava, o forse erano gli occhi ammirati della ballerina - che si trovava coinvolta in una cadena dritta e rovescia che era un ricamo sonoro e visivo in mezzo alla sala, e tutti lasciavano spazio, perché non appartenevano, in quei tre minuti, al loro stesso mondo o alla loro stessa pista - o forse era solo il potere allucinogeno del tango.
S. aveva versato tributi di pomeriggi e gioventù, e ora il tango gli restituiva tutto, nella moneta sonante del parquet.
P. guardava il marito, solitamente sommesso e nascosto dietro le sue gonne, ché le Coppie Principianti ci mettono due o tre ere geologiche a sciogliersi un poco, moltiplicano per due i problemi dei corpi, si rallentano a vicenda per proteggersi, per ritardare al massimo il momento di volare da soli. Quel giorno di risacca, il marito di P. s'era tuffato, e ora - aveva urlato C. annunciandolo al mondo - nuotava senza braccioli!
P. lo guardava ballare e nuotare nell'acqua bassa della pista - un tango moderato, ragionevole, riflessivo, come sono sempre i tanghi dei Principianti Appena Avanzati - e lei era compiaciuta e segretamente sollevata - che, si sa, spesso per le donne il problema non è solo stare in equilibrio da sole sul proprio baricentro, ma far stare lui in equilibrio sulla sua autostima.
Il tango prende per due, ma ridà a ciascuno.
Cenerentola, intanto, sobillata dal suo bottone rosso e dalla pista stretta dove s'accendevano fuochi, aveva accettato il tango scomposto di M., che sacrificava ogni oncia di postura all'acrobazia dei passi (e questa è una cosa che di solito incanta i Principianti e fa storcere la bocca agli Anziani), e poi, per contrappasso, quello mentale e filologico di F., che ogni volta interpretava un pezzo della storia del tango, trascinandola in abbracci chiusi e poi aperti, in vortici da fermo, persino in un tentativo di planeo che lei considerò con scandalo e segretissimo godimento.
Percorse tante volte la pista da non accorgersi che il bottone, quell'unico bottone di seta rossa, era caduto, rotolato e spinto via dalle punte e dai tacchi, perduto in mezzo ai sentieri dei passi, che quella sera erano particolarmente stretti.
A un certo punto, fu il centro esatto della milonga. Perché ci sono milonghe senza centro, ed altre che ne hanno uno preciso, attorno al quale girano per tutta la serata e l'orbita.
Quella sera fu "A Evaristo Carriego".
La musica cominciò a spandersi a piccole onde – col suo andamento di nostalgia retroversa e i morsi di bandoneon - e tutti si misero in fila sul bagnasciuga, col cuore stretto, a gettare qualcosa dentro il tango: uomini, ricordi, speranze, bottoni, gesti, figure, storie.
C. buttò due Principianti Assatanati, B. il suo rovello di postura, D. il sogno segreto di ballare come Gavito, V. la sua aria da principessa, N. tutti gli ochos atras che riuscì a ricordare - il passo che si fa beffe del baricentro, ti smaschera nella tua incapacità di sostenerti da sola e regalare uno squisito fiore d'equilibrio in forma di pivot all'uomo - , F. persino un ocho cortado che gli era rimasto impigliato nelle scarpe – così bello e drammatico, una tragedia in tre battute e lieto fine - , L. tutti i traspiè che avrebbe voluto: sognava una vita in apnea e controtempo, in cui sorprendere tutti di punta e di tacco.
Il tango inghiottiva, vorace come il mare.
Lentamente, la marea si ritirò, la milonga girò ancora un poco sul proprio asse e lentamente finì, e sul pavimento - tra le alghe, i fossili, i passi - tutti ritrovarono qualcosa che avevano lanciato in mare, chissà quando.
C. ritrovò un ricordo antichissimo, chiuso in una scheggia di sguardo bianca.
Il marito di P. trovò i suoi braccioli, sgonfi.
P. trovò il marito coi braccioli sgonfi.
S. trovò una collana di pomeriggi, seminuova.
N. trovò il modo di piegare impercettibilmente un ginocchio per sostenersi: i suoi ochos crebbero a vista d'occhio.
L. trovò un pique sul secondo passo.
Cerenentola trovò il suo bottone.
Il tango prende, ma poi restituisce, le disse l'uomo alla cassa.
Lei annuì, e uscì stringendo il suo bottone di seta, rosso.
dedicato a Gavito, che ho visto qui ballare "A Evaristo Carriego" e mi è rimasto come una spina nell'anima .
BULIMIA TANGUERA
Che la Tanguera Compulsiva non ha pace, in alcun momento.
Mica le bastano, i tanghi della practica, i tanghi della milonga, i tanghi dell'autoradio, i i tanghi mp3 abilmente occultati in una cartella clandestina del desktop aziendale (e ogni tanto, quando c'è poca gente nella stanza, la Tanguera Compulsiva alza il volume, e il Collega Sgradevole le dice: meno male che non ti sei fatta arancione, sennò qui ci sorbivamo i mantra... Al che la Tanguera Compulsiva gli risponde: Caro, io mi sono fatta nera, come questo qui: e gli spara l'incipit per pianoforte di Evaristo, che lo colpisce di taglio nel diaframma. Il collega s'accascia sulla scrivania, con un'espressione di lieve sorpresa, mentre giostre d'altri tempi fanno salire il destino e partono all'indietro, lasciando lì la scrivania, il collega riverso e questa vita).
Mica le bastano, i tanghi di cui legge, i tanghi di cui legge le parole (e le parole del tango, scritte lì, in fila, sono come i passi disegnati, senza corpo), i tanghi di cui discute con gli altri iniziati, come fossero storie, film o vicende dei vicini di casa.
No.
Lei ha una teoria.
Lei pensa che il corpo deve assorbirlo, il tango. E gliene dà piccole dosi continue. Anche quando non può ballare, quando nemmeno può accennare un passo, un perno, un adorno così sommesso da restare tra il corpo e il corpo, come un segreto trasparente, il ricordo d'un gesto nell'aria.
La Tanguera Compulsiva - come altri fanno con le orchidee, con i canarini, con i piranas - nutre la memoria profonda dei muscoli, dei nervi, delle strade remote di mielina e impulsi elettrici, convinta che tutto quel tango il corpo glielo restituirà, dopo averne assorbito il ritmo, il tempo interno, le proteine, gli zuccheri, i violini, i mantici, le pause, gli acidi grassi, l'inevitabile divenire.
E la Tanguera Compulsiva lo fa a modo suo, come prima ascoltava canzoni, o scarabocchiava fogli o mangiava cioccolata o pensava alla persona sbagliata.
Così, io non ho un tango preferito. Ho un cibo preferito, che consumo fino allo sfinimento e allo sdegno (parola di lunfardo siculo-calabro, che indica il raggiunto limite di saturazione oltre il quale un sapore, pure divino, disgusta). Le mie tandas sono pasti, pasti ininterrotti della mia Bulimia Tanguera. Sono dissimili, asimmetriche, assurde, come un panino di marmellata, maionese e capperi di Salina. Come una torta di prugne e pizza margherita.
La tanda di adesso (dove adesso è un tempo compreso fra i giorni scorsi, i prossimi cinque minuti, due settimane fa e il futuro millennio) è :
Evaristo (specie le prime battute, che a volte mi rivolgo contro, senza nemmeno difendermi...)
Tango Negro
Recuerdo
Vuelvo al Sur.
La prossima, che scatterà chissà quando, avrà altri sapori. Magari cioccolata e faraona ripiena, non so.
Aggiungo una curiosa Nostalgias che ha un suono arcaico, una voce brillantinata, un impomatamento da Gardel, ma nel ritornello (che poi è una versione tutta strumentale, in cui di colpo, a tre quarti di brano, irrompe la voce ma solo per il refrain, come uno strumento tra gli altri), alzandosi in corrispondenza delle parole "nostalgias", "angustias", "hermano", mi dà i brividi. Certe volte ho il sospetto di non essere contemporanea di me stessa...
11 - LA MILONGA DEL SOLSTIZIO
Perché la milonga non è un luogo, e non è una festa. La milonga è un cerchio sacro, un rito collettivo, un sacrificio.Per esempio l'altra notte.
Un lido in riva al mare , c'era scritto. La riva del mare è la riva lunga, sabbiosa, occupata da baracchi, cannizzi, reticolati. Il lido è lì, precario nella sua struttura di legno secco, paglia, incannucciato.
Ci accoglie coi tavolini di plastica, il bancone di formica, il bancofrigo dove languiscono confezioni rattrappite di hamburger e vaschette di gelato vuote.
La gente del lido è sempre la stessa: la ragazza grassa col marsupio, i centodieci bambini, l'anziano coi pantaloncini corti e le ciabatte.
La signora scettica che ci chiede: ma voi ballate solo il tango? e aggiunge, speranzosa: nessun altro ballo? No, signuruzza, nessuno. Solo tango, stanotte . Forse.
Il clima, in compenso, è impietoso: lo scirocco con le labbra rosso africa che soffia da sud, la sabbia che esala piano il calore del giorno, la calmeria che ristagna come una spessa colla trasparente.
Ma noi c'addentriamo - ormai sappiamo che c'è un "caminito" da percorrere prima di ogni tango, perché al tango si deve arrivare - inciampando nella sabbia terrosa e nelle assi sconesse del pavimento. Abbiamo abitini esili sostenuti da spalline, strangolini al collo, paillettes, mascara a prova d'acqua, passi che si agitano nella memoria, aspettative.
La pista è di legno, legno secco sporco di sabbia, assi inchiodate malamente e in leggera pendenza. C'è buio, forse troppo. Qualcuno, poco lontano, arrostisce braciole di carne, sviluppando un denso fumo che s'attacca ai vestiti, ristagna basso.
E io che mi sono portata le mie scarpe nuove: leggiadre Paoul rosa antico, allacciate due volte attorno alla caviglia, animate dalla luce segreta del raso. Sono le scarpe per il solstizio dell'estate e del tango : lasciamo la milonga dei Naviganti, la milonga invernale stretta stretta tra le case, sul parquet d'un teatro alternativo (dove infatti s'alternano testi e passi, le parole che il tango traccia sull'impiantito, con le punte, e i gesti che il teatro libera nello spazio, scandendo le desinenze e gli accenti), per la milonga estiva in riva al mare.
M'aspetto grandi cose dalle mie scarpe, almeno quanto poche me ne aspetto dal Lido che ci ospita, specie in una sera africana piena di polvere.
E invece.
Appena cambiamo le scarpe, appena accendono le candele sui tavolini, appena il primo tango fa fluire le sue libere energie, le sue risorse nascoste di tristezza e bandoneón, i suoi violini gocciolanti e aromatici, appena i primi abbracci ridisegnano lo spazio, lo ridefiniscono, molto oltre la pista sabbiosa e sconnessa del lido, allora è lì e in quel momento che la milonga nasce, si costituisce come un recinto sacro (nella lingua in uso qui alcuni millenni fa si sarebbe detto témenos) , una bolla, un incantesimo. Spariscono le giostrine, i flipper americani, i tavolini di plastica smangiata, l'odore di assi vecchie e sabbia, la disillusione, la sfiducia.
La milonga prende la sua propria forma , e il luogo ne risplende.
Balliamo per molte ore, io e le mie scarpe di raso. M'accorgo solo alla fine che non sono più rosa, ma rosse: sulla pelle, le ferite da tango si aprono crudeli , seguendo il profilo dei lacci. Mentre ballavo m'accorgevo solo del lento movimento rotatorio della milonga, della particolare ispirazione che forse ci veniva dal solstizio, o dal mare (le navi traghetto passavano enormi e bianche, quasi quanto le nuvole basse), della lieve azione di contrasto dello scirocco, che pure superavamo con pause appassionate, adornos lentissimi e camminate ritmate e appoggiate alla spina dorsale leggera della musica. Anche i giri si facevano lenti, aiutati da certi tanghi riflessivi, articolati, lentamente narrativi (compresa una versione di "A Evaristo Carriego" con pianoforte protagonista, un po' di Gothan Project e persino un "Libertango" pieno d'aperture sulla notte). M'accorgevo del sudore, che - come ha scritto poco più sotto tumbergia - ci mescolava quanto l'abbraccio e il nostro desiderio di milonga.
Infine, è stata una lezione in più, la lezione di sempre: le scarpe rosa, da cui tanto m'aspettavo, m'avevano ferita; la milonga, di cui avevo dubitato, m'aveva ripagata. Il tango prende e dà , come ogni volta.
12) MILONGA DEI GELSI
Le tessere del mosaico in fondo alla piscina, le pietruzze allineate nella Rosa dei Venti del lastrico, i gelsi neri adagiati sulle foglie, le stelle appese a grappolo, come i gelsomini e le bouganvillee. E poi il tango: allo stesso modo, particelle una accanto all'altra, che componevano passi leggeri sull'impiantito, gesti nell'aria – circolari, perché il tango è rotondo e contiene, rettilinei, perché il tango è diritto e cammina.
La serata perfetta non voleva nemmeno un'unghia di luna: brillava di luce propria, delle luci dello Stretto, dei lustrini e degli occhi, del verdeacqua chiaro della piscina, dei calici dove le bollicine – anche loro – si disponevano pazienti, circolari e rettilinee, in fili minuti. Le fiaccole al limone e citronella ardevano piano ai bordi della pista, e altri fuochi ardevano dentro la pista, sommessi. Tutto attorno, la notte dei gelsi e delle parole – che, si sa, si fermano sempre fuori dal cerchio, perché dentro il cerchio, e dentro l'abbraccio, non servono.
A., l'ospite squisita ch'aveva apparecchiato offerte di fragole, crema gialla e gelsi neri, si muoveva tra noi morbida, con un disegno di piccole luci, una accanto all'altra, sull'abito nero.
E. era al centro d'una piccola guerra: i suoi passi rossi ed eleganti , uno accanto all'altro, erano contesi da R. e da V., che si combattevano di traspiè, guardandosi in cagnesco.
Farolit aveva una cornice di volants rossi attorno allo sguardo, uno sguardo sapiente e ambrato che veniva da lontano, come la luce d'un faro: solo guardandola, i ballerini potevano orientarsi, e cercare altre rotte.
T., invece, che veniva dal Nuovo Mondo, era curioso d'altre luci, portava ovunque i suoi occhi di mandorla e i suoi passi curiosi, che cercavano i tanghi fin al centro delle Rose dei Venti disegnate a mosaico sull'impiantito di cotto.
Cenerentola si sentiva felice, e non avrebbe saputo dire se era per la notte, i gelsi, l'aria di limone, l'acqua che mormorava appena, i passi che le riuscivano quasi tutti, allineati sul pavimento: il tango è una marea, certe volte, e per ragioni misteriose si ritira o copre tutta la spiaggia, trascina via ogni cosa oppure te ne restituisce mille di colpo. Era una notte che risanava, restituiva con ricchezza: perle di fondale, pietre a forma di stella, passi antichi che si disegnavano nuovi – l'ocho cortado era davvero una storia interrotta e un pentimento che riscoprivamo lì e ora, il “Pepito Avellaneda” disegnava una sequenza di domande, una di fronte all'altra, nei pivot che ci contrapponevano, ci univano, lo “specchio con vuelo” specchiava fino alle radici la notte, le stelle, lo Stretto, gli occhi fitti di spillo dei gelsi neri.
Juan contava i passi disseminati sulle piastrelle di cotto: il suo istinto di capitano gli suggeriva percorsi, rotte, ritorni. La sua anima era canyengue, ieri notte, che pure era una notte lenta, in cui persino le milonghe prendevano una cadenza trasognata, lunghe file di bollicine, circolari e diritte, che affioravano in superficie.
C. aveva orecchini di piccolissimi brillanti che scomponevano le altre luci e le addizionavano: come la musica, come la notte, come i tanghi che scivolavano sui bordi di pietra, si fermavano sulle poltrone di midollino, sotto le siepi di pitosforo, negli orli dei voleos che ardevano brevi e fiammanti.
Il tango greco, a una certa ora, si sostituì alla luna, con la sua luce di miele selvatico: ballammo tutti certi passi dorati e lenti che brillavano prima di spegnersi, certi passi dal succo nero, aspro e dolce, come i gelsi che ci aspettavano sulle foglie.
Certe notti il tango è semplice. Di più: è necessario.
13 - MONTALBANO SONO
Diciamocelo, le cose sono due: camminata e giro.
Nella vita, intendo, e nel suo riassunto denso che è il tango.
Lui procede, a ritmo variabile, a passi lunghi o corti, e tu ti adatti, oppure ti opponi, accorci le sue intenzioni, perdi frontalità, lasci che sia il suo petto, nudo e di traverso, a farsi strada verso una direzione che non condividi, che non riesci a intendere.
Oppure lui si ferma, e tu gli giri attorno, e la pista è un fiorire di piccoli sistemi tolemaici in cui non ci si fa che domandare chi è il sole, e chi la terra, e chi stia girando attorno a chi, e soprattutto perché e fino a quando.
Non a caso, di camminata e giro s'è occupato – col suo eloquio fine e il suo sguardo penetrante, la sua concentrazione assoluta e la sua intima eleganza - Osvaldo Roldán nella due giorni di Montalbano organizzata dalla benemerita Tangoquerido .
Nella stanza climatizzata e sostanzialmente estranea alla montagna, affacciata sulle aiuole di prato inglese e lavanda provenzale, sotto la facciata di pietra tedesca e legni austriaci, il fervore argentino di Roldán c'ha tenuti inchiodati due giorni, due giorni di camminate e giri.
El caballero e la mujer , archetipi assoluti, ricorrevano di continuo nelle parole del Maestro, che si serviva di Annamaria Ferrara per mostrarci la sua idea di eleganza economica del movimento, di sfruttamento degli spazi e delle intenzioni, di comunicazione profonda attraverso i suggerimenti della musica e le risorse del corpo, ma ogni volta chiamava a sé los caballeros , da soli, perché lo seguissero di punte e tacchi sul pavimento di cotto toscano.
La camminata perfetta non esiste, ma esiste la camminata personale , messa a punto con una conoscenza profonda di sé: ciascuno deve trovarla da solo, tentandola attraverso il pavimento, la musica, l'abbraccio (Roldán propone - ma è una proposta: ciascuno ha il suo abbraccio, il suo cerchio - un abbraccio milonguero medio, non serrato ma intenso, non perfettamente frontale, lievemente più aderente alla destra dell'uomo, un circolo di forze dentro il quale tutto può accadere, dove il corpo del caballero si veste di intendimenti, si carica del peso e del privilegio delle scelte e della trasmissione delle scelte: l'energia sale col respiro, gonfia il petto e sostanzia la presenza – gli esercizi propedeutici sono di rilassamento e cognizione del corpo, dei suoi “pezzi” sovranamente dissociati, liberi di cercare l'armonia collettiva).
La camminata è un banco di prova. La camminata è un topos, in un tango o in una relazione. Il punto è sempre quello: quali sono le sue intenzioni? Che passi vuole fare, con me? Lo sto perdendo, mentre m'illudo di camminargli davanti, ma all'indietro, perché quello è il destino delle donne? Sta andando dove non vuole portarmi, mentre m'illudo di rispondere alla sua volontà vera, al suo desiderio non espresso a parole ma messo in scena dal corpo? Sto fraintendendo, e non me n'accorgo da dentro ma si vede da fuori, oppure l'opposto: da fuori è una camminata passabile, e dentro ci sono ostacoli, spine e cavalletti?
La misura è in voi , dice Roldán, senza risolvere la questione, lasciandola aperta, lasciandola a noi e ai nostri corpi: il loro assetto, la loro forma, la loro postura - ci ha detto, anzi ci ha dimostrato - ci condiziona più di quanto siamo disposti ad ammettere, ci determina ben più di quanto potremmo fare con le parole (le parole, infatti, nelle lezioni di Roldán restano tutte accatastate fuori: dentro regna un silenzio di cattedrale, rotto soltanto – ma non è proprio rotto, solo assecondato – dal suo parlare felpato e preciso e dalla musica, quando la parola resta ai corpi).
Non che il giro sia cosa diversa.
Ci sono milioni di modi per affrontarlo, per entraci, restarci e uscire. Ed è pura mitologia, che esistano strutture fisse per la mujer : non c'è niente di precostituito, nel tango, non ci sono meccanismi, ma ogni volta scelte, adesione profonda, ascolto.
Partiamo con una camminata corta, poi due ochos atrás in movimento – stretti e corti, con un perno breve – e uno sul posto, ampio, d'ingresso nel giro. Il giro, eccolo il giro: passo avanti, apertura, passo indietro. Potresti chiuderti nell'autismo di un ingranaggio appreso, chiudere gli occhi e seguire solo te stessa, passo avanti, apertura, passo indietro. Potresti persino fare a meno di lui. E invece no.
Il giro di Roldán è un sistema di forze, una massimizzazione di energie: la spinta di lei alimenta lui, perché nessuna forza va sprecata: l'eleganza è una manifestazione dell'economia, il gesto perfetto è il più semplice, quello che spreca di meno. Guardando Roldán sembra persino possibile: ha le scarpe luccicanti, e nessun passo è più lungo del giusto, del dovuto. E' quella misura del corpo che vuole insegnarci, ma che non può dirci: dobbiamo saperla da noi.
Lei gira, lui sente la forza di lei, e la sfrutta per alcuni controtempi rapidi, perché nulla vada perduto. Lui non sta fermo, tecnicamente non esistono le pause, esistono passi fermi, in cui l'energia si muove comunque, in cui l'accadimento della musica, del tango, non s'arresta.
E io giro, e chiudo gli occhi, non per escludere lui ma per ritrovarlo, sentirlo senza il disturbo e l'infingimento della vista e della parola. E io giro, e mi chiedo per quanto sarà, e quando usciremo da questo sistema perfetto . Io giro, e mi chiedo se non sono io, quella ferma dentro il mio movimento apparente, e se non sia lui, a girare, o nessuno, e questo giro sia una forma dell'immobilità, una forma della domanda senza risposta che sono le relazioni. Io giro, e in realtà so che lui non è fermo dentro il mio giro, lui non è un sole perché questo non è un circolo ma un' ellisse , e ne siamo entrambi i fuochi, i centri gemelli, e ciascuna orbita attrae e determina l'altra (Osvaldo, intanto, ci spiega senza una sola parola il potere d'attrazione dell'orbita, la comunicazione cosmica dell'energia, il movimento che non è mio o tuo, ma di entrambi, dentro la musica).
Camminata e giro: non ci fermiamo qui, è solo un punto di partenza . Roldán non lo dice, ma starà ai nostri corpi continuare a tentare.
Camminata e giro, e potremmo fare qualsiasi cosa, persino nulla.
14 - LA RONDA NELLA TEMPESTA
Non credo ai compleanni, non credo alle rinunce, non credo ai venerdì.
Credo ai desideri, credo agli incantesimi, credo all'inspiegabile.
Non credo alle tempeste, anzi ci credo.
Per esempio, venerdì.
Ok, non era ancora, tecnicamente, il mio compleanno, che da sempre è oggi, sei agosto, giorno della bomba atomica su Hiroshima e della morte di Marilyn in cinemascope (mia madre diceva che in ospedale non parlavano d'altro, nemmeno del suo travaglio di diciannove ore, del suo corpo a corpo col dolore al quale non voleva concedere niente: mai stata una che si rilassava, una che “il dolore è un'onda, lascia che ti attraversi”. Da lei ho preso le mie sofferenze di granito, la mia incapacità di lasciar correre, d'assecondare le cose, il mio non essere assolutamente zen). Ma io volevo festeggiarlo alla milonga, io volevo la mia ronda . Da una vita aspettavo la ronda.
La ronda è una forma di tributo d'onore: sei tu il protagonista, e tutti gli altri devono ballare con te. Tutti gli uomini, se sei una donna. E non solo. Devono proprio contenderti, devono strappare via i concorrenti per avere l'onore di ballare con te. Un sogno poligamo e narcisistico? Un sogno predatorio, scandaloso, politicamente ed emotivamente scorretto? Esattamente.
Ora, io avevo deciso: venerdì (che pure, nella cabala dei giorni, è sempre alquanto ostile e traverso: io sono una donna da giovedì, o al massimo da sabato mattina) volevo la festa, volevo la ronda . M'ero pure comprata un vestito nuovo. Ammetto: lo cercavo nero e indiscutibile. L'ho trovato bianco e sognante. Cercavo pure uno smalto per le unghie: lo volevo scuro, opaco e sanguigno. L'ho trovato chiaro, squillante e pieno d'estate. Ma era un giorno di contraddizioni, si vedeva dalle nuvole che si radunavano, dubbiose, a occidente, mentre un sole esagerato batteva impietoso il suo martello incandescente sulle strade.
Alle quattro di pomeriggio, quando ho provato il mio abitino, un po' Marilyn un po' Cenerentola, è scoppiata la guerra. Piovevano macigni dalle regioni alte dei cieli, grossi macigni che rotolavano ed esplodevano attraverso le nuvole, così fitte e scure che i lampioni si sono accesi di spavento. Dal balconcino di farolit querida , un balcone della vecchia Messina affacciato sulle magnolie, avevamo la certezza: ci stanno sparando.
Ci sparavano mentre sceglievamo i brillocchi, provavamo le scarpe e i passi, ci pettinavamo con l'olio profumato. Sparavano sulla nostra certezza che bastino gli affetti e i desideri, a chetare le tempeste e muovere gli eventi. Sparavano sui nostri controincantesimi, un po' Macbeth un po'nonna Carmosina, un po' Circe un po' Mary Poppins.
E noi, niente. Soavemente convinte che bastassero le nostre intenzioni, la nostra saggezza divergente, i nostri vestimenti leggieri, ci siamo addentrate nella notte nera disegnata dai lampi – rami di fuoco distribuiti tra il cielo e lo Stretto, che era d'un color ferrigno scuro, col bianco delle navi che spiccava contro la tempesta. Gli dei si sono scatenati: Poseidone col tridente smuoveva il fondo dei mari, Eolo spazzava il litorale, le cui conchiglie arrivavano a volo radente fino al fianco dei colli, Zeus rimescolava le nuvole nere con le saette di bronzo, che facevano un tumulto di guerra.
Nel lido della milonga la devastazione regnava sovrana: i cannizzi zuppi, le sedie rotolate via, l'assito fradicio di temporale, i cavi morti nell'acqua alta. Ma si lavorava febbrilmente, e quando siamo entrate io e farolit le prime due note d'un tango si sono levate, chiare e inequivocabili, nell'aria gocciolante. R., la nostra maestra, era lì, rocciosa: “ Ma certo che si balla, nessun problema ”. Gli dei hanno accusato il colpo.
La milonga è stata magnifica: fitta fitta, un cerchio magico come al solito, ma più pieno del solito, così minacciato a vista dalle potenze telluriche radunate tutto attorno. C'erano tutti, e anche di più. Persino Artemide ha osato affacciarsi, con un viso d'oro pallido, da uno squarcio delle nubi. Dalle Calabrie lontanissime – ché la tempesta raddoppia il mare e allontana le terre – sono arrivati altri indomiti, tra cui M., l'uomo della musica, pieno di risorse e vals per esorcizzare gli spiriti avversi. Da Palermo è giunto compadre Felipelcid , fulvo e tenace, col suo passo di maratoneta.
E a un certo punto l'uomo della musica ha fatto sgombrare la pista e ha chiamato al centro la Broscia festeggiata: attorno, il cerchio degli uomini, e, più indietro e più largo, il cerchio delle donne. Avevo scelto "Recuerdo" di Pugliese: io sono di tango, non di milonga o vals (e nei miei sogni c'è un tango come quello di Copes nel film di Saura: con un uomo che mi sceglie tra la folla, vuole proprio me, e ha la faccia come una mappa dove posso leggere i passi, e la vita stessa).
Ed è stata quella la colonna sonora del mio sogno poligamo e dionisiaco. Ha cominciato G., il mio maestro, milonguero sopraffino, e poi tutti gli altri, che si strappavano via l'uno con l'altro, s'avvincendavano nell'abbraccio, mimavano la contesa e la lotta che corre sottile nel tango, il suo filo rosso di contrasto e desiderio, il suo potere predatorio.
Non mi sono preoccupata di sbagliare i passi, non m'importava niente di ballare: volevo solo sentirmi il centro di quel cerchio d'energie , tre minuti d'archetipo femminile assoluto, tre minuti da ape regina, solo apparentemente seguidora .
Lo so, è orribilmente presuntuoso e risarcitorio, come tutte le fantasie, ma era la mia festa, e poi il Dio del Tango aveva avuto i suoi sacrifici: come tutti gli dèi, compresi quelle della tempesta che stavano anche loro lì attorno, nella milonga spalancata ed elettrica dei cieli, gradisce sangue sudore e lacrime, gradisce desideri inconfessabili, riti e incantesimi in suo nome, gradisce fedeltà senza discussioni. L'abbiamo saziato.
E le energie dovevano davvero disegnarsi nel cielo, come fulmini alla rovescia che il cerchio della milonga inghiottiva, nel suo centro più centro che era l'abbraccio della ronda di continuo spezzato e rinnovato, nutrito di lotta, festa e desiderio.
L'ultimo caballero fu… la mia maestra R., che sa ballare da maschio con una determinazione elegante che tutte le invidiamo: l'ultimo frammento d'abbraccio, gli ultimi passi sono stati con lei, a richiudere quel cerchio pericoloso, ricomporre la milonga e i cieli, consegnare al mio recuerdo quei tre minuti.
Subito dopo, le nuvole si sono ritirate, e nel cielo sgombro già dondolavano luci di barche e di stelle.
SERGIO, davvero molto carino questo lunghissimo post.ci ho messo un secolo a leggerlo ma merita..;)Chi lo ha scritto?
RispondiEliminaIl racconto l'ho trovato in un sito ma l'autrice dovrebbe essere Manginobrioche
RispondiElimina