Articolo tratto da Tangomagazine n.2
Identità e differenza
o fusione universale?
Dove comincio io, dove finisci tu.
Guardali lì. Colgada perfetta. Pivot sincronico. Abiti immacolati. Tecnica rigorosa. Ma risultano freddi. Non muovono l’anima. Né la loro, né quella di chi li guarda. Hanno appena eseguito un tango di confine. Un tango dove si attua quella distanza che la nostra educazione perbenista alimenta quando nell’abbraccio tanguero poniamo riserve. Quando manteniamo il nostro diametro individuale. Quello strano spazio mentale che si trova tra una mano e l’altra, tra il nostro petto e quello altrui, tra le cose che indossiamo e che non vogliamo stropicciare, tra i passi che eseguiamo con caparbiaetà indefessa anche quando il partner, la musica o l’accrocchio in pista ci suggerisce che è il caso di fare altro. Allora diventa tango di confine. Denuncia coreografica della nostra sordità all’Altro. È un difetto in cui ricadiamo, di tanto in tanto. Altro che fare convegni su identità e differenza! Nel tango c’è ancora chi rimane ai bordi, ai confini dell’abbraccio vero. Della fusione che toglie confini mentali e sociali. Ma anche di genere.
Il tango di confine è una pratica viziata dagli stereotipi di ciò che vuol apparire, ma non è .
È quello spazio tabù che pur mettendo in contatto, inconsciamente separa, innalzando barriere pari a quelle adoperate per sgomitare sul tram. Pur separando, fortunatamente però per noi, esso finisce col far incontrare persone, cose, culture, identità, spazi fra loro differenti. Le frontiere, le mura di casa o le abitudini comportamentali. Così come il corpo, le divisioni sociali, le mappe del pensiero, la cartografia del potere, rimandano a un’idea di esclusione o di limite che ha l’occasione quotidiana di poter essere rotto dal suo confine. Insomma, seppur ancora in eterno cammino siamo così distanti dalla fusione tra noi e ciò che è altro da noi? Forse il tango può fare la differenza. Non essere la differenza.
È il cervello che nel tango mantiene la distanza. Non il corpo.
Quello si muove da sé. Non i sensi. Rispondono senza che noi si possa fare più di tanto per controllarli. Il corpo è cambiato moltissimo nei millenni. Nel contesto attuale subisce costanti inquinamenti. Eppure cerca di mantenere la sua verità, nonostante la corruzione dell’aria, della società, delle condizioni di vita. Già vi ho raccontato di come anticamente il centro della personalità umana non fosse il cervello, bensì il cuore. E ancora prima di allora, non era nemmeno il cuore, ma era più in basso, vicino all’ombelico: praticamente nell’hara (ventre). Ora però il centro, come gli psicanalisti – in particolare i seguaci di Lacan – ci ricordano, è il cervello. Questo, perlomeno, è quel che si ritiene in Occidente. Ma se chiedi a un monaco Zen: “Con che cosa pensi?”, lui si mette la mano sulla pancia. Quando gli europei sono entrati per la prima volta in contatto con questi monaci, faticavano a capire. “Che sciocchezza! Come puoi pensare con la pancia.” La risposta Zen è significativa dello scartamento del mentale a favore del corpo. Spostiamoci ora da Cina e Giappone. Guardiamo l’India. Crown of creation è la definizione che il filosofo indiano Sree Aurobindo dà del corpo umano, ovvero “corona”, completamento sublime della creazione. A differenza della visione giudaico-cristiana (che l’eredità Atzeca e Maya ha mitigato in America latina) il corpo in India è concepito come veicolo privilegiato per raggiungere il trascendente ed entrare in contatto con l’essenza più segreta dell’universo.
La consapevolezza può usare qualsiasi centro del corpo, e il centro che è più vicino alla sua sorgente originaria è il ventre. Quella che molti insegnanti di tango chiamano comunemente “il perno della radice”. Nelle nuove correnti di pensiero sul tango, da New York a Mosca, c’è chi associa il tango al tantra. Persino l’occidentale – che sovente legge questa danza come un’intensa allegoria della condizione umana: la tensione ideale tra cielo e terra – Così il tango diventa anche per i più austeri, un ballo di una coppia teso al sublime, al ritorno al primigenio. In effetti, grazie alla dissociazione del bacino, le gambe si sporgono a cercare la terra, mentre il busto mantiene l’asse del corpo in equilibrio, distendendosi verso l’alto. Tutto nel tango rimanda alla fusione di corpi, umori, afflati temporali. C’è un’esplosione energetica che convive con livelli di appagamento. Alcuni dicono, pari a quelli dell’amplesso sessuale. Altri all’estasi. Altri, alla elevazione di spirito. Infine, alcuni dicono di poter provare la fusione totale con il proprio partner.
Ma cosa fa veramente scattare tutto ciò? Proviamo a fare un’ipotesi.
Tangueri e tanguere, leggete e meditate.
Il linguaggio tantrico è sempre un linguaggio d’amore e gli adepti o gli amanti nel tantra sono “coloro che sono andati al di là della dualità”. Il tantra propone la trasformazione del sesso in amore e dell’amore in meditazione. L’eros quindi è il “grande cancello che schiude l’infinito e l’eternità dell’esistenza”. Per coloro che praticano il tantrismo, l’energia cosmica inconscia viene raffigurata dal serpente Kundalini, che dorme silenziosamente alla base della spina dorsale. Il fine dell’unione è quello di armonizzare nel proprio corpo i principi maschile e femminile, con una sorta di androginazione rituale. Quando la shakti, o Kundalini, viene risvegliata, attraversa i chakra, e raggiunta la sommità del cranio, dove risiede il principio maschile, a lui si unisce. Questa fusione universale avviene con l’unione simbolica dei due principi opposti. Accettando quanto Jung e Hillman sostengono e cioè che Kundalini è “l’istinto di individuazione” , questo istinto sappiamo avere una forte componente sessuale ed una base erotica.
L’energia sessuale della Kundalini non è che energia vitale, il suo risvegliarsi è risveglio di tutto l’essere fino ad arrivare a ciò che gli indiani intendono con samadhi, fusione del sé individuale con il sé universale. L’eros quindi si sviluppa e si nutre di quel particolare senso di identificazione: “io sono te” che abolisce la dualità suscitando col senso di appartenenza all’altro il senso di una unificazione. Questo senso di unificazione o di identificazione è descritto come “essere trascinati nell’altro, dentro l’altro, quasi fino al punto di non potersene più distinguere”. E chi di noi nel tango non ha provato almeno una volta nella vita tanguera questa sensazione straordinaria?
Tango di confine?
No grazie. Ho una fusione universale che mi aspetta dietro l’angolo.
la mia timidezza patologica mi costringe a un tango di confine perenne. Mai un passo oltre la soglia, mai un momento di rilassatezza. Imparerò a lasciarmi andare?
RispondiEliminaSono sicurissima che la nostra cara amica Azalais riuscira' a lasciarsi andare...tirando fuori la passione che è in lei e l'espressione del suo essere... non subira' il tango, ma ne sara' parte...ed il tango sarà parte di lei...un'unica cosa!!
RispondiEliminacome la tela di un quadro con il suo colore...
che pizza...
RispondiElimina